Stampa questa pagina
Venerdì, 14 Giugno 2013 12:36

Riflessioni post-elettorali: quanto a lungo Renzi resterà il promesso?

Scritto da 

Stupisce che Matteo Renzi non sia capo del Pd o del Governo. Non stupisce che la “gerarchia” del Pd faccia di tutto per sbarrargli la strada, per fargli le pulci ogni giorno, ogni ora. La gerarchia presto o tardi, però, dovrà rassegnarsi. Non va da nessuna parte con un lessico e delle motivazioni barocche, fumose, vaghe, fatte da dirigenti che hanno perso le elezioni.
L'ex segretario del Pd, Bersani, non si è reso conto che ha staccato una débâcle elettorale storica che, meriterebbe, da parte di chi l'ha causata, il silenzio monacale ab illo tempore. Invece insistono, tignosi, nel dare lezioni e medicine per uscire dalle sabbie mobili e mirare “il sol de l'avenir”.
Epigoni di maghi e astrologi, dispensatori di sagge cure del giorno dopo.


Renzi fa bene bacchettare tutti i giorni, fa bene a esigere la data del Congresso del Pd, fa bene a chiedere di conoscere prima le regole dell'elezione del segretario, fa bene a spingere sulle contraddizioni del Governo Letta che è la prolunga del Governo Monti.
E fa bene a dire che il Pd non deve spaventarsi ad avere una leadership. Bersani ha perso perché non era un leader, non aveva quelle ascendenze necessarie, naturali, di una leadership politica. E guerreggiare contro la leadership, dire, come ha fatto Bersani, che è un male perché sinonimo di un uomo solo al comando è negare l'evidenza che per vincere ci vuole un leader forte, riconoscibile e capace. D'altronde l'ha ammesso anche Bersani nell'analisi post voto: quando si perde le colpe le prende un uomo solo. È la dimostrazione che, anche lui, Bersani, era un uomo solo al comando.


Tutti quelli che guidano i partiti sono uomini soli al comando, da Blair a Obama, da Mitterand a Schroder, tanto per scavallare tra ere geologiche politiche di sinistra. Contestare che Renzi imiti l'idea di un uomo solo al comando solo perché ha doti naturali di leadership è un controsenso, in termini, storico. A Bersani è stato contestato da più parti nel Pd, dopo la perdita delle elezioni, quel suo aver deciso troppo da solo, o tra la sua stretta cerchia di persone (soprannominato il cerchio del tortellino, mutuando il cerchio magico attorno a Bossi).
È così vero che il Pd ha bisogno di una leadership che il caso più eclatante è stato il partito allo sbando durante l'elezione del Capo dello Stato. La leadership non la affermi cercando i traditori. È evidente che se Renzi avesse vinto le primarie del Pd, oggi, non saremmo a questo punto. Siamo di fronte a dati statistici e storici inoppugnabili: quella delle primarie è stata la vera sconfitta del Pd, incapace di cogliere e di porre dei rapporti nella società. Di cogliere e assaporare immediatamente una occasione che sarebbe stata storica per la sinistra. Invece è passato il solito sublime messaggio tronco di un partito che è arrivato sempre tardi, accucciandosi su posizioni a metà, non abbracciando mai le innovazioni fino in fondo.


Anche la conquista di voti della destra è, e deve essere, l'imperativo primo per chi vuole diventare maggioranza in un paese dove la sinistra, maggioranza, non lo è mai stata e non lo sarà mai se si va avanti di questo passo, vittima di retroterra culturali tra lo snob passatista e il fumoso grigio di Londra.
Polemizzare con Renzi perché ha parlato con Briatore è patetico. Chi fa politica deve aprirsi a estuario, scambiare idee con chiunque e di certo Briatore non è la lebbra, si può dire male e bene ma è un imprenditore affrancato dagli aiuti di Stato a fondo perduto.
Anche la polemica su Renzi da Amici di Maria De Filippi è una sciocchezza del tempo perduto: raffigurarlo un bambolotto giovanilista, vuoto, quando invece si sintonizza su linguaggi e persone fuori dagli schizzi della politica è un jump contemporaneo da studiare nelle facoltà di comunicazione. 


È inimmaginabile che un leader con carisma debba stare nell'antiporta di continuo, attento che lo Stumpo (il responsabile bersaniano dell'organzzazione del Pd) di turno possa tessere l'ennesimo sgambetto per farlo desistere o scivolare all'ultimo miglio. La cultura comunista - e a scrivere è uno che è stato iscritto al Pci e ha fatto politica dentro il Pci - ha delle logiche che, seppur passano i nomi, le sigle, tante, del Partito ex comunista, sono, comunque, rimaste nella selezione politica, la liturgia propria delle sezioni locali, delle federazioni: non devi sforare, non devi andare per tuo conto, devi essere catalogabile, ingabbiabile, appartenere a cordate fiduciarie che rassicurano il capo.
E non è un problema anagrafico. I giovani dentro i partiti ci sono sempre stati: il punto è non omologarsi, non annusare il capo cordata vincente, ragionare con la propria testa, innestare format di linguaggi convincenti meno da “tavoli”, “nel quadro”, “la complessità” e “nel modo in cui”. Sì, il confronto tra conservatorismo e progressismo passa soprattutto nello stracciare liturgie da molok e Renzi fa bene a smontare e destrutturare. Le parole usate dal Sindaco della città gigliata, nell'incontro a Firenze, organizzato da la Repubblica sono tutte mirate a dire: io con questo schema retrò non mi ritrovo.


Insistere che questo è e rimane un Governo anomalo, che è utile solo se fa le cose (e se non le fa, va a casa), che la riforma elettorale la può fare anche suo nonno, che le questioni non si possono risolvere sempre facendo delle commissioni è una visione adulta del comun sentire degli italiani. Un po' debole, Renzi, è stato sulle questioni europee. Ha apprezzato molto le parole ammirate di Letta verso l'Europa. Qui Renzi deve azzardare un po' e staccarsi dall'idea di una Europa comunque intoccabile, da santificare ob torto collo. Ma lo comprendiamo, aprire troppi fronti nell'Italia dei temporeggiatori, avrebbe un sapore sovversivo.

 

(articolo pubblicato sull'Huffington Post diretto da Lucia Annunziata, lunedì 10 giugno 2013)

maurizioguandalini